Il numero di donne colpite da tumore al seno cresce velocemente.
E se un tempo la fascia di età delle persone più a rischio era compresa tra i quaranta e i sessant’anni, oggi la forbice si è allargata fino a raggiungere ragazze di diciotto e signore oltre gli ottanta. Vien da sé che oltre a essere un problema di carattere sanitario, questa è diventata anche una questione sociale e culturale.
Una donna su otto viene colpita da tumore al seno nel corso della vita.
Si stima che in Italia ogni giorno circa mille persone ricevano una diagnosi di tumore maligno. È una sofferenza che non riguarda solo una percentuale della popolazione, ma tutti: un malato, infatti, si deve misurare con la società e i familiari che gli stanno intorno, che si prendono cura di lui e lo sostengono.
Quando ho accettato questo lavoro, l’ho fatto sulla scia dell’entusiasmo e della voglia di buttarmi in un progetto nuovo, senza considerare che sarebbe stato molto complesso e diverso dagli altri per il coinvolgimento emotivo e personale che avrebbe comportato.
I primi dubbi sono arrivati subito: il tema è stato ampiamente trattato da colleghi in tutto il mondo, così avevo la necessità di cercare uno stile originale e personale, che allo stesso tempo assecondasse le esigenze di tutti. La priorità erano le signore che avrei ritratto, dovevano sentirsi a proprio agio e soddisfatte del risultato. Poi dovevo pensare al punto di vista del committente. Infine al mio desiderio di trovare una strada “nuova” per raccontare in punta di piedi una malattia: volevo dar vita a immagini delicate che non respingessero il fruitore di fronte alla malinconia del tema e, allo stesso tempo, condizionata dal mio approccio giornalistico, sentivo il bisogno di raccontare le loro esperienze con onestà.
Ho pensato di utilizzare un velo come filo conduttore, un vezzo tipicamente femminile visto che la parte colpita, il seno, è simbolo di femminilità. Con la sua trasparenza e leggerezza, questo tessuto mi ha consentito di “giocare” sul set con le mie modelle e (s)velare non solo le parti del corpo colpite dal male, ma anche le cicatrici profonde e non sempre visibili.
Misurarsi con il dolore non è facile, ma è stato proprio attraverso il confronto con le donne che il progetto ha preso forma strada facendo. Ho capito, per esempio, che la parola “cancro” fa paura. Nella nostra società è un termine tabù, invece deve essere pronunciato senza timore. Le signore che ho incontrato mi hanno spiegato che è inutile girarci intorno: “male del secolo”, “brutto male”, “si è ammalato”… No! il tumore va affrontato per sconfiggerlo, e bisogna parlarne chiaramente anche davanti a chi troppo spesso guarda al malato con imbarazzo.
Nonostante la sofferenza, sia fisica che psicologica, chi ha deciso di partecipare al progetto lo ha fatto per celebrare la vita.
Ho imparato che il processo di guarigione passa anche attraverso piccole cose. Quando cadono i capelli o si ingrassa per le medicine, prendersi cura di sé è fondamentale. In quel periodo non ci si riconosce, la mancanza delle sopracciglia toglie espressione al volto, si perde la propria identità. Imparare a truccarsi, anche per chi non era abituata a farlo, diventa importante. Per questo il trucco, che inizialmente pensavo servisse solo per migliorare gli scatti, ha avuto un ruolo importante nel progetto.
Ogni donna ha vissuto il percorso della malattia in maniera diversa: chi con grinta, chi con rabbia, chi ha rafforzato legami affettivi e sentimentali, chi si è ritrovata sola. Anche per i familiari è difficile vivere di riflesso questa situazione, sono numerose le coppie che non hanno resistito a questa prova, molti uomini non sono stati capaci di sostenere il peso di tanta sofferenza.
Inaspettatamente, tutte mi hanno detto che il cancro è stato un’occasione. Un’occasione per ripensare a tante cose, per prendersi cura di sé, per fare pulizia nella propria vita, per capire ciò che conta e per trovare, finalmente, la forza e il coraggio per realizzare un sogno.
Da queste storie parte lo spunto per (ri)pensare a come viviamo, alla stretta relazione tra inquinamento, alimentazione e malattie. Alla stupidità dell’uomo che saccheggia l’ambiente a proprio uso e consumo. Anziché essere custodi della natura, la distruggiamo senza renderci conto che è un male che ci si ritorce contro.
Il progetto si chiama Io ero, sono, sarò perché parlando con queste donne ho capito che la loro vita era divisa in tre parti: prima, durante e dopo la malattia.
“Perché è capitato proprio a me?” è la domanda ricorrente che si fanno le persone quando gli viene detto che hanno un tumore, una domanda alla quale è difficile dare una risposta. Tutte mi hanno detto che si sentono persone profondamente cambiate dopo essere passate attraverso questa esperienza. Le loro prospettive e le loro priorità vengono riviste, spesso il futuro è una dimensione che perde di significato e che lascia più spazio al presente.
Alcune hanno incontrato medici straordinari che le hanno seguite e non le hanno fatte sentire sole, molte invece sono state trattate come numeri ai quali doveva essere applicato un protocollo identico a quello di tutte le altre. Ma nessuna persona dovrebbe essere trattata come un numero; ai futuri medici bisogna insegnare che non si interviene solo su un sintomo, ma che ci si deve prendere cura del corpo, della psiche e dell’anima dei pazienti.
Bisogna saper ascoltare.
Perché?
Non è stato sempre facile ascoltare le testimonianze delle signore che hanno partecipato al progetto, il destino in alcuni casi è stato davvero crudele. Madri e figlie, oppure sorelle, ammalate contemporaneamente. Perché? Non si può non farsi questa domanda, quando hai di fronte persone che hanno sempre condotto una vita regolare, mangiato bene e fatto sport. Non è questo che consigliano i medici? Allora perché? Perché proprio a loro?
Se loro si chiedono perché è capitato a me, io mi chiedo perché non è ancora capitato me?
A chi o a cosa ci si aggrappa? Dove si trova il senso di quello che sta accadendo? Il destino? Il caso? Forse chi ha fede è avvantaggiato, ma esperienze del genere credo che mettano alla prova chiunque.
Adesso che ho imparato a conoscerle e a voler loro bene, ho paura che qualcosa di brutto possa accadere di nuovo. Sì, ho paura ma non voglio farlo vedere, così ho imparato a ingoiare le lacrime.
Il tempo
Questo per me è stato un lavoro sulla malattia, ma anche una profonda riflessione sul valore e il senso del tempo. Il tempo scandisce tutto fin dall’inizio. Quanto tempo mi resta da vivere? È la prima domanda che ognuna si fa, senza girarci troppo intorno. Quanto tempo durano le cure? Dopo quanto tempo mi posso considerare guarita? Fra quanto tempo posso riprendere a lavorare? Dopo quanti mesi mi ricrescono i capelli?
Il tempo diventa una dimensione con la quale ci si misura in continuazione e che condiziona ogni istante, ogni scelta, anche quella che sembra più banale. Assume un valore molto diverso per chi ha ricevuto questa diagnosi. Perdere tempo non è concepibile.
In virtù di questo le relazioni diventano più definite, non si ha più voglia di dedicare energie a “chi non le merita”, non si ha più voglia di subire, si trova il coraggio di dire e di fare cose che prima non sarebbero state dette o fatte, si diventa più forti. Quello che per alcuni è solo uno slogan, qui e ora, per queste donne è un modo di vivere.
Il set
Ho lavorato nel mio studio, che è anche la mia abitazione. Credo che un ambiente familiare e la possibilità di conversare davanti a un caffè, un tè e una fetta di torta abbia contribuito a creare un clima rilassante. Se inizialmente pensavo di dedicare una giornata a ciascuna signora, mi sono subito resa conto che lavorare con un piccolo gruppo era una soluzione migliore, aiutava a stemperare la tensione e a ironizzare sulla situazione. Se devo dirla tutta, ci siamo fatte delle grandissime risate. Non è mica facile posare nude di fronte a degli sconosciuti se non si è modelli professionisti! In questo caso poi, la malattia aveva minato il corpo, oltre che lo spirito. In alcuni casi i segni della chemioterapia erano visibili, come qualche chilo in più a causa delle cure o, al contrario, qualche chilo in meno.
Penso che queste donne siano state molto coraggiose ad accettare di farsi fotografare quando ancora il progetto non aveva una forma definita. Mi ha commosso la loro disponibilità e la fiducia nei miei confronti, una responsabilità che ho sentito molto. Ci siamo prese per mano: io ho guidato loro e loro hanno aiutato me a dare un senso a quello che stavo facendo. Mi sono sentita in dovere di fare un lavoro importante anche per ricambiare la generosità nel concedersi al mio obiettivo.
Il trucco
Leonardo Bellomo è un operatore socio sanitario del reparto di oncologia del San Raffaele, ma è anche un truccatore specializzato in trucco oncologico. La sua presenza è stata importantissima, e anche grazie a lui ho potuto lavorare serenamente.
All’inizio lo avevo chiamato per regalare alle donne un’esperienza e per migliorare il mio lavoro: un trucco leggero e ben fatto contribuisce a rendere il risultato fotografico più gradevole e naturale. Ma dal primo giorno mi sono resa conto che la sua presenza (unico uomo, poveretto) era molto rassicurante per le signore, perché venivano coccolate da una persona che conosceva bene il loro percorso. Infatti, Leonardo offre questo servizio alle malate oncologiche in ospedale con l’associazione Salute allo Specchio.
La sua esperienza è stata fondamentale sul set. Leonardo ha saputo ascoltare, consigliare e ridere insieme a noi, oltre che aiutarmi a dare un ritmo al lavoro: quando una signora era al trucco, un’altra veniva fotografata, e così via.
Il velo
Uno degli aspetti più complicati da gestire è stato il velo. Se da una parte era un filo conduttore che legava il lavoro, dall’altra il rischio era quello di realizzare immagini tutte uguali. Così mi sono calata nei panni di una sarta, ogni volta creavo un modello diverso in accordo con i desideri della signora ritratta in quel momento, ciascuna con il proprio percorso e con un diverso rapporto con un corpo ferito, un pudore che era giusto rispettare.
Fotografare il nudo femminile mi piace molto, ha dei rimandi pittorici che si ritrovano nella iconografia classica, ma allo stesso tempo il timore di cadere nel banale o, peggio ancora, nel volgare è sempre dietro l’angolo. Un rischio che davvero non volevo correre.
Gli scatti più belli venivano condivisi con le signore ritratte, e a me poi spettava la scelta finale, che teneva conto del singolo fotogramma ma anche del lavoro nel suo insieme. Quanto sanno essere critiche le donne verso se stesse! La gioia più grande è stata di vederle contente e riappacificate con il loro corpo finito lo shooting.
Alcune mi hanno detto che è stata una vera terapia prendere parte al progetto e vedersi finalmente di nuovo belle dopo aver dedicato molto tempo ed energie alle cure. Sono contenta di aver regalato loro non solo un ritratto, ma un’esperienza che rimarrà tra i ricordi.
La vita è come il filo di un arazzo
C’è nei poeti una capacità di eleganza della narrazione che esula dal tema trattato. C’è una eleganza nel cuore e negli occhi di Silvia Amodio che sempre mi emoziona e mi colpisce. La leggerezza del suo racconto è vicino alla poesia. Il suo impegno su temi importanti e profondi non le impedisce di filtrarli attraverso la sua splendida freschezza di linguaggio. Questo straordinario lavoro di Silvia stempera e trasforma anche un argomento come il tumore al seno in una carrellata di bellezze femminili che la malattia non è riuscita a intaccare, ma anzi ha in qualche modo reso ancora più consapevoli del fatto che il tragitto drammatico cui sono state sottoposte rende la loro bellezza più profonda e la loro presenza nel mondo importantissima e necessaria al tessuto della storia. Quello che esce dalle splendide fotografie è un inno alla vita e alla gioia dell’essere nella vita. Colori tenui e tranquillizzanti, pastosità quasi classica della materia, sembrano dirci che la vita splende in ognuno di noi e va glorificata aderendo al tempo con profondità, ogni singolo giorno.
Io ero, sono, sarò recita il titolo di questa opera. Ecco, nella continuità senza interruzioni delle splendide vite che sfilano davanti all’occhio poetico e innamorato di Silvia sta la dolcezza del messaggio visivo di queste fotografie. Non c’è cesura che la malattia possa operare sul tracciato delle nostre esistenze e delle nostre storie. Ogni corpo, ogni volto, ogni sguardo raccontano la meraviglia di una vicenda irripetibile e incancellabile.
Dice Blaise Pascal che ogni singola vita è come il filo di un arazzo, e noi, guardandoci intorno, non vediamo che un grande caos insensato di fili colorati e nodi caotici. Ma, spiega il filosofo, questo è perché siamo sul retro dell’arazzo e tutto appare in disordine, ma se potessimo passare dall’altra parte, capiremmo lo splendido disegno che costituisce quel affastellarsi di fili, e, soprattutto, che senza il nostro apparentemente inutile filo colorato l’arazzo sarebbe fatalmente incompiuto.
Così Silvia ha preso alcuni di questi fili e li ha dolcemente illuminati per mostrarci lo splendore di ogni singola vita, anche della più difficile, e quanto è importante il loro sguardo per tutti noi.
In queste donne incantevoli sta il racconto di gioia e dolore di ogni tragitto umano. Silvia le ha accarezzate con la sua fotografia, con dolcezza e amore come solo un’anima bella può fare.
E la carezza è arrivata a loro e a tutti noi.
Grazie Silvia per questa tua visione che è poesia pura e dolcezza che si fa arte.
E grazie a queste magnifiche donne che ci hanno raccontato le loro storie con coraggio e positività.Giovanni Gastel