di Elvira Naselli, giornalista la Repubblica Salute

C’è chi lo scopre per caso, e chi perché il bimbo la abbraccia e sente un “semino”. C’è chi pensa a come reagiranno i figli quando avrà la nausea da chemioterapia e chi ragiona se ne potrà avere mai, di bambini, con quelle terapie che sì, salvano, ma annientano la fertilità. E poi ci sono i capelli. Sembra stupido, e si sentono stupide quasi tutte, ma subito dopo aver pensato “perché proprio a me?”, dopo la diagnosi di cancro al seno, si pensa a quei capelli che cadranno a ciocche e dovranno essere tagliati, alle parrucche che bisognerà indossare, alla resa ai capelli bianchi che cresceranno e che non verranno più tinti. E si penserà alle ferite, le ferite al seno dopo la chirurgia. Anche se è sempre meno invasiva. E le ferite del cuore e della testa, che passano solo se non ci si arrende. Se si trova il coraggio di condividere, di non nascondere la malattia. Di pensare che qualunque cosa accada, la battaglia è solo all’inizio. E che in fondo a quel tunnel che sembra lunghissimo c’è la luce.

I numeri sono precisi e raccontano sempre la verità. Ma sono freddi, le statistiche non rivelano lo sgomento o quel vuoto improvviso: “Signora, è cancro”. Già, cancro. Del resto il “trend” in crescita vuol dire proprio questo. Che sempre più donne si ammalano. Quello al seno è il tumore più diffuso, tra le donne. Ed è anche quello più diagnosticato, grazie agli screening, in quelle Regioni dove vengono proposti attivamente e funzionano. Arrivare prima, quando il tumore è agli esordi, fa la differenza. Perché sì, sempre più donne si ammalano. Ma sempre di più guariscono e dopo cinque anni sono qui a raccontare di come in fondo – con questo cancro – la vita abbia offerto loro una seconda chance, abbia migliorato la loro consapevolezza, abbia selezionato gli amici e le relazioni vere. Abbia insegnato a pronunciare la parola cancro senza paura.

I numeri, dicevamo. Secondo gli ultimi dati dell’Airtum, l’Associazione italiana registri tumori, nel 2017 si sono ammalate di tumore alla mammella 50.000 donne. E 500 uomini. Con una tendenza che è in lieve aumento, quasi l’1 per cento l’anno. Per fortuna la mortalità scende di più del doppio, il 2,2 per cento all’anno. Con differenze non indifferenti per fasce d’età: tra 35 e 44 anni aumento dell’incidenza dello 0,6% e mortalità in calo del 2,2; tra 45 e 49 anni sale dell’1,9% l’incidenza e la mortalità si abbassa dell’1,6% l’anno; incidenza più o meno stabile con +0,3% nella fascia 50-54 anni, e mortalità giù del 3,7%. Poco più alta, 0,4%, tra 50 e 69 anni, con mortalità dell’1,8 per cento l’anno. E infine le over 70, alle quali qualche Regione ha deciso di aprire lo screening mammografico: mortalità +0,5% e incidenza in crescita dell’1,4%.
Secondo numeri e statistiche, insomma, circa una donna su otto in Italia si ammala di tumore al seno nel corso della vita. Può capitare a 25 o a 70, ma ansia, traumi e angosce sono le stesse. E poi c’è la famiglia, che può sostenere e dare forza. Oppure ci sono i mariti e i compagni che non ce la fanno, e se la danno a gambe levate. Legami che si rinforzano, e altri che saltano in aria. Ci sono i figli che sostengono. E quelli che hanno bisogno di supporto psicologico perché non vogliono vedere la mamma senza capelli. E hanno il terrore di poterla perdere. Insomma, davvero il cancro, e il cancro di una donna in particolare, rischia di essere una bomba a orologeria in una famiglia.

Perché se è vero che ci si può ammalare anche a 25 anni, è più frequente che capiti tra i 50 e i 69 anni. Anche qui la storia la raccontano i numeri: il rischio di ammalarsi di quello che è il più frequente tumore femminile – il 28% di tutte le neoplasie che colpiscono le donne – cresce invecchiando. È del 2,4% sotto i 49 anni, una donna su 42, cresce fino al 5,5 tra 50 e 69 anni, una donna su 18, riducendosi lievemente al 4,7, una donna su 21, tra i 70 e gli 84 anni.
Ma i numeri non raccontano le storie delle circa 767.000 donne che in Italia hanno avuto la diagnosi di cancro al seno, ovviamente. E che, nell’87 per cento dei casi, sono ancora vive dopo 5 anni. Una media, certo, che nasconde però differenze anche notevoli per fascia d’età. E per luogo di residenza: perché vivere in una Regione o in un’altra può voler dire diagnosi più tardive, liste d’attesa più lunghe per gli interventi. In una parola, può voler dire vivere di meno.

Ma i dati del registro raccontano che in Italia la sopravvivenza a dieci anni è superiore rispetto alla media europea. Perché 80 donne su cento sono vive. E sono 87 dopo cinque anni. Con differenze molto significative, però. Nelle donne più giovani (15-44 anni) da 87 si passa a 91%, così come nelle donne tra 55 e 64 anni. Un punto in più, 92%, per chi ha tra 45 e 54 anni, mentre la percentuale scende con l’aumentare dell’età: è dell’89 nelle donne 65-74 anni e del 79% sopra i 75 anni, in quelle più anziane.

L’età è in sé un fattore di rischio. Questa correlazione potrebbe essere legata al progressivo danneggiamento del Dna, ma anche all’accumularsi di quelle condizioni epigenetiche, legate all’ambiente, che modificano quello che i nostri geni possono esprimere. I cosiddetti fattori di rischio. Tra i tanti, alcuni sono stati identificati e vengono citati dalle linee guida dello scorso anno dell’Aiom, l’associazione italiana degli oncologi medici. Eccoli.

I fattori riproduttivi: una lunga durata del periodo fertile, con un menarca precoce e una menopausa tardiva; non avere mai avuto figli; una prima gravidanza a termine dopo i 30 anni; non avere allattato al seno. I fattori ormonali: il rischio aumenta se si fa terapia ormonale sostitutiva durante la menopausa, soprattutto se si utilizzano estroprogestinici sintetici ad attività androgenica; e aumenta se si usano contraccettivi orali. I fattori dietetici e metabolici: consumo elevato di alcolici, grassi animali, poco consumo di fibre vegetali; l’obesità e la sindrome metabolica. In più la pregressa radioterapia, specialmente se prima dei 30 anni, e precedenti cancri o displasie mammarie. E poi c’è la familiarità ed ereditarietà. Il 5-7% dei tumori al seno è legato infatti a fattori ereditari. Di questi, un quarto è legato alla mutazione di due geni: il Brca1 e il Brca2. Che aumentano il rischio di ammalarsi di cancro al seno del 65% il primo e del 40 il secondo. Sono ormai molto noti poiché l’attrice Angelina Jolie, che ha perso molte donne della famiglia ed è portatrice dei due geni, ha deciso di sottoporsi prima a mastectomia preventiva, e poi ad asportazione delle ovaie. Per non dover vivere con l’angoscia della malattia. Da allora molte donne nel mondo hanno deciso – come la Jolie – di sottoporsi a mastectomia preventiva. Ma i medici non sono tutti d’accordo e secondo molti i controlli ravvicinati potrebbero garantire la stessa sicurezza senza ricorrere a interventi demolitivi.

La prevenzione resta arma fondamentale. Per le donne che per età rientrano nei programmi di screening mammografico biennale, quelle tra 50 e 69 anni. Ma la mammografia – sulla quale negli ultimi anni sono stati espressi tanti dubbi come strumento di screening, dubbi fugati successivamente da decine di studi  –  va personalizzata anche per le donne più giovani, tanto che il Piano nazionale italiano prevenzione (Pnp) 2005-2007 suggerisce alle Regioni di considerare l’invito per le donne tra i 45 e i 49 anni ogni 12-18 mesi, e anche per le donne tra i 70 e i 74 anni. La mammografia infatti è più sensibile con l’aumentare dell’età perché si riduce la densità mammaria, e dunque per le donne più anziane è ancora più efficace. Le più giovani dovrebbero affiancarla all’ecografia. Le donne ad alto rischio – quelle che hanno storia familiare di malattia o sono portatrice dei due geni Brca – dovrebbero invece cominciare lo screening a 25 anni, o 10 anni prima dell’insorgenza del tumore nella parente più giovane. Arrivare prima fa la differenza. Per cacciar via dal proprio corpo quello che Chiara, 44 anni, ammalata dai suoi 37, definisce il suo T rex, che si nascondeva agli esami e che ha scoperto da sola. Perché sì, ha una validità scientifica bassissima, ma anche l’esplorazione del proprio corpo può fare la differenza.